CORSO DI FORMAZIONE PER RLS
Modulo 4 – Tecniche della comunicazione, di negoziazione e gestione delle riunioni
“D.LGS. 81/08 e D.M. 10/03/1998”
SOMMARIO
1. LA COMUNICAZIONE
1.1 INTRODUZIONE
1.2 CARATTERISTICHE GENERALI DELLA COMUNICAZIONE
1.3 COMPORTAMENTO E COMUNICAZIONE
1.4 CONTENUTO E RELAZIONE
1.5 LA COMUNICAZIONE VERBALE E NON VERBALE
1.6 IL LINGUAGGIO
1.7 COMUNICAZIONE VERBALE
1.8 COMUNICAZIONE NON VERBALE
1.9 PRINCIPALI FUNZIONI DEL COMPORTAMENTO NON VERBALE
1.10 ASPETTI CHIAVE DELLA COMUNICAZIONE NON VERBALE
1.11 OSTACOLI ALLA COMUNICAZIONE
2. PERCHÉ NASCE UN CONFLITTO COMUNICATIVO
2.1 PRINCIPIO DI COOPERAZIONE DI GRICE
2.2 CONFLITTO TRA COMUNICAZIONE E METACOMUNICAZIONE
2.3 FENOMENO QUADRILATERO DI Schultz Von Thun
2.4 SEQUENZE DI DISSENSO DI Gruber
2.5 PERCEZIONI E INTERPRETAZIONI
2.6 ASPETTATIVE
3. COME STABILIRE UNA BUONA SITUAZIONE COMUNICAZIONALE
3.1 COMPETENZA COMUNICATIVA
3.2 L’ASCOLTO ATTIVO
3.3 RIASSUMENDO
4. I FILTRI
4.1 DIECI CONSIGLI PER MIGLIORARE L’ASCOLTO
5. EMPATIA
6. L’ASSERTIVITÀ E I DIVERSI MODI DI ESSERE ASSERTIVI
6.1 LO STILE ASSERTIVO
6.2 LO STILE AGGRESSIVO
6.3 LO STILE PASSIVO
6.4 LE CRITICHE
6.5 TECNICHE PER PROTEGGERSI DALLE CRITICHE MANIPOLATIVE E AGGRESSIVE
6.5.1 REGOLE PER FORMULARE UNA CRITICA IN MODO ASSERTIVO
7. L’AUTOSTIMA
8. ESERCITAZIONI
8.1 MINI DISCORSI PERSUASIVI
8.2 SUI MECCANISMI PERCETTIVI
8.2.1 ACCORGIMENTI PRATICI
1. LA COMUNICAZIONE
1.1 INTRODUZIONE
Nella sua accezione più ampia la comunicazione è considerata come uno scambio di messaggi con l’ambiente circostante.
Tale definizione pone l’accento sul fatto che tutti gli esseri viventi vivono in un continuo rapporto di scambio con l’ambiente e le persone che lo abitano. Con il termine “scambio” si deve intendere la situazione in cui l’individuo dà e riceve qualcosa in un particolare momento, nel contesto in cui vive e nella rete di relazioni in cui è inserito.
Nel corso del proprio sviluppo e maturazione intellettiva, emotiva, psicologica, l’individuo apprende a decifrare i vari scambi di cui è partecipe e a interpretare ogni avvenimento accada intorno a sé.
Impara, per esempio, a decodificare i messaggi verbali che gli vengono inviati da altri individui e i comportamenti delle persone con cui si trova in relazione. Il fatto di possedere numerosi sistemi di codifica e decodifica della realtà rappresenta quindi un aspetto fondamentale per la vita e la sopravvivenza dell’individuo.
La comunicazione è un’esperienza usuale, continua e spontanea nei vari ambiti della vita, privata, lavorativa, etc.
Come già detto, è qualcosa di profondamente radicato nella natura umana. Dunque tutti noi, in un modo o nell’altro, comunichiamo.
Non è però detto che si riesca a farlo in modo adeguato e, quindi, il desiderio e il bisogno di comunicare, insiti nella natura umana, rimangono spesso insoddisfatti, facendoci sentire di conseguenza invasi da un senso di incomunicabilità.
Tale inquietudine, che circonda la comunicazione, ha comunque una valenza positiva, in quanto mette in risalto la sua importanza, il suo valore.
Si può però imparare a migliorare il proprio modo di comunicare.
Nei vari ambiti della nostra vita saper comunicare è un fattore chiave per la qualità delle relazioni interpersonali e, in definitiva, per quella della nostra vita.
1.2 CARATTERISTICHE GENERALI DELLA COMUNICAZIONE
Siamo talmente abituati a comunicare che, solitamente, lo facciamo in modo automatico, senza fermarci a riflettere. Invece, ai fini di una gestione consapevole delle nostre comunicazioni, il primo passo è proprio quello di esercitare tale riflessione e discutere le caratteristiche della comunicazione, normalmente nascoste dall’abitudine.
Innanzitutto, è necessario disporre di un vocabolario condiviso, le cui caratteristiche riconosciute sono riconducibili a sei paragrafi fondamentali:
Struttura
La comunicazione viene comunemente considerata come un flusso di informazioni da un Emittente a un Ricevente (per Emittente si intende colui che invia un messaggio, per Ricevente colui che lo riceve). In tale quadro, comunicare significa emettere dei messaggi indirizzandoli a un destinatario.
Tale idea “lineare” della comunicazione (Emittente → Ricevente) non spiega però tanti altri fenomeni che avvengono quando due individui comunicano tra di loro. Non spiega, per esempio, perché a volte non è possibile dire ciò che ci si era prefissati di comunicare o perché nel corso della comunicazione si decida di interrompere di parlare e di andarsene.
Per comprendere tali fenomeni, è bene ricorrere a un concetto di comunicazione più esteso, in cui entrano a far parte anche i comportamenti del ricevente, ovvero le sue risposte.
Infatti, ogni messaggio emesso dall’Emittente viene recepito dal Ricevente, determinando una sua reazione che viene chiamata feed-back, parola inglese di difficile traduzione, che generalmente è definita come informazione o messaggio di ritorno.
Nel momento in cui l’Emittente parla, il Ricevente reagisce a tali comunicazioni. Tali reazioni sono poi captate dall’Emittente, che regola il proprio comunicare anche in base a esse.
La comunicazione non è dunque un processo solamente lineare, in cui un’informazione viaggia da un Emittente a un Ricevente, ma ha una struttura “circolare”, nel quale i messaggi viaggiano contemporaneamente tanto nella direzione dall’Emittente → al Ricevente, quanto in quella inversa, dal Ricevente → all’Emittente.
Tuttavia, bisogna sottolineare che, a seconda delle circostanze, la struttura circolare può essere più o meno evidente.
Il caso in cui risalti di più è quello del colloquio “faccia a faccia” tra due persone, ma l’emissione di un messaggio va sempre vista come attivazione di un processo di scambio, di un rapporto che ha una sua durata temporale e che non si esaurisce nel momento in cui l’emissione è terminata.
Modalità
La comunicazione può essere ad una via a due vie o a due vie, a seconda che l’interlocutore abbia la possibilità di interagire immediatamente con l’emittente oppure no.
Esempi di comunicazione bidirezionale sono i colloqui “faccia a faccia” e le conversazioni telefoniche; invece, esempi di comunicazioni unidirezionali sono le conferenze, le lezioni cattedratiche, i messaggi scritti.
Canali
La comunicazione umana dispone di due canali fondamentali: verbale e non verbale. Un tipo particolare di comunicazione non verbale è quello paraverbale o paralinguistico, così detto perché si origina nell’apparato vocale, ma non è costituito da parole (tono della voce, volume, suoni).
Tempo
Una comunicazione può svolgersi in tempo reale (colloqui, conversazioni telefoniche, etc.) o in tempo differito (comunicazioni scritte, registrazioni, etc.).
Distanza
Una comunicazione può avvenire faccia a faccia (interazione diretta con gli interlocutori, uno in presenza dell’altro) oppure a distanza (telefonate, scritti, collegamenti telematici).
Spazio
Gli interlocutori possono essere solo due, un gruppo ristretto o più ampio, una folla di persone, etc. Per esempio, in ambito lavorativo, da un colloquio riservato a un comunicato stampa, le comunicazioni scambiate all’interno delle organizzazioni moderne coprono tutta la gamma delle possibilità.
1.3 COMPORTAMENTO E COMUNICAZIONE
Ogni azione compiuta dall’individuo, viene definita “comportamento”: stare fermo, seduto o in silenzio, mangiare, dormire, parlare, baciare, etc., sono tutti comportamenti. In ogni istante e situazione l’individuo mette in atto dei comportamenti.
Non è, infatti, immaginabile che un individuo non mostri, anche solo per un momento, un determinato comportamento, ossia non esiste una situazione di “non comportamento”: tutta la vita è un comportamento, in ogni istante e ambiente.
Nel corso delle relazioni con le altre persone ogni cosa che un individuo fa viene decodificata da altri, ovvero viene interpretata e fornita così di significato.
Dunque, se ogni comportamento assume un significato, ovvero è comunicativo, e se è impossibile non avere un comportamento, si evince che in realtà non è lecito non comunicare nel corso delle relazioni interpersonali.
1.4 CONTENUTO E RELAZIONE
Una delle funzioni svolte dalla comunicazione è consentire agli individui di parlare di se stessi e degli altri, oltre che degli eventi e oggetti della realtà.
Tuttavia, rimane da chiarire come si instaurano particolari relazioni, ben definite, tra i partecipanti ad una comunicazione, cioè, in che modo, comunicando, gli individui si scambiano informazioni in merito alla relazione interpersonale che vanno stabilendo o mantenendo.
Accade che ogni partecipante comprenda, ma senza che ciò venga chiarito esplicitamente, il tipo di relazione che l’altro tende ad instaurare e che, di conseguenza, regoli il proprio comportamento in base a ciò.
Questo avviene perché chi parla non emette soltanto informazioni relative ai contenuti (eventi, notizie, informazioni, etc.), bensì anche inerenti alla relazione che lo lega all’altro.
Tali informazioni non sono espresse in modo esplicito, verbale, intenzionalmente diretto, né a volte consapevole.
Infatti, sono quasi sempre emesse in modo naturale da ogni partecipante, inconsapevolmente o solo parzialmente in modo voluto.
Sono dettate dalla conseguenza di come ognuno vive l’altro, da quale considerazione ha di esso, da quale percezione possiede in merito alla situazione, da quale fine intende perseguire, etc.
Nel normale conversare fra persone vi è dunque un invio di messaggi comunicativi, emessi tramite tutte le modalità che le persone utilizzano per comunicare: verbale, paraverbale, gestuale, posturale, etc.
In altre parole, si può concludere che, quando gli individui comunicano tra loro, adottano comportamenti ed emettono messaggi inerenti contemporaneamente sia a ciò che si intende per “contenuto” (fatti e oggetti della realtà), sia a quel che si intende per “relazione “(il rapporto che lega due o più individui).
1.5 LA COMUNICAZIONE VERBALE E NON VERBALE
La comunicazione non è semplicemente scambio di affermazioni, bensì è trasmissione di messaggi dalla sfera interiore di una parte a quella di un’altra, è scambio di idee e sentimenti.
Ciò implica che il destinatario comprenda quello che l’emittente cerca di trasmettere.
Risulta naturale che la comunicazione non si esaurisca esclusivamente nella parola.
Il linguaggio è il sistema tipicamente umano e il suo aspetto essenziale è essere inserito in una situazione sociale.
Dunque, la comunicazione non si limita ad essere un processo cognitivo, ma è anche comportamento simbolico e attività sociale.
“Non si può non comunicare”: così afferma, non a caso, uno degli Assiomi della Comunicazione.
Conclusione: non esiste il “non comportamento”, parlare è dunque agire ed anche il silenzio e la non attività hanno il valore di messaggio.
Questo avviene perché il nostro stesso comportamento, per la sola presenza di un’altra persona, viene modificato e quindi diviene comunicazione.
Non è indispensabile che ci siano intenzionalità e volontà di comunicare. È sufficiente la presenza dell’altro per mutare il nostro comportamento.
Tutti gli uomini hanno bisogno di dare e ricevere informazioni per sopravvivere, perché siamo in costante rapporto con gli altri: è inevitabile. Gli esseri umani hanno sviluppato il linguaggio, la capacità di esprimersi con le parole. Ma la comunicazione verbale non è sufficiente a realizzare un rapporto relazionale completo.
La comunicazione Non verbale e Paraverbale riesce a completare la caratteristica denotativa, cioè la concretezza della realtà espressa dalla comunicazione verbale, con la sua funzione di trasmettere emozioni e sentimenti.
Per la maggior parte delle persone è il parlato, il contenuto verbale della comunicazione, ad essere percepito maggiormente, ma è un errore riservare poca attenzione al messaggio non verbale. Entrambi gli aspetti della comunicazione vanno utilizzati.
Si tenga presente che spesso noi reagiamo in modo inconsapevole ai segnali NON VERBALI, che percepiamo negli altri in maniera intuitiva, e la stessa cosa succede nelle persone con cui entriamo in relazione. Quindi, fare attenzione ai messaggi non verbali significa avere costantemente sotto controllo la dinamica della relazione.
Se ci abituiamo ad osservare attentamente la comunicazione analogica (non verbale), riusciamo ad accorgerci delle situazioni problematiche che possono verificarsi sin dall’inizio e vi possiamo porre rimedio prima che degenerano.
Possiamo indicare gli elementi principali della comunicazione secondo lo schema di Roman Jakobson:
e vediamo il Circolo della Comunicazione:
dove:
L’emittente è colui che inizia la comunicazione;
Il messaggio è ciò che la fonte riesce a trasmettere al destinatario;
Il codice: il messaggio passa attraverso un codice che deve essere comune tra le parti, per riuscire ad interpretare quanto trasmesso;
Il canale di comunicazione è il mezzo utilizzato per far giungere il messaggio al destinatario;
Il ricevente, o destinatario, è colui che riceve il messaggio;
Il feedback è lo strumento di controllo che ci permette di capire se il messaggio è giunto secondo le nostre intenzioni.
1.6 IL LINGUAGGIO
Il linguaggio è lo strumento primario della comunicazione, è il nostro ambiente, è la totalità dell’esperienza che abbiamo della realtà non linguistica. Se ci pensiamo bene, non ci sono cose che non hanno nome!
Il riconoscimento della funzione di comunicazione come fondamentale è questione recente e avviene per opera della linguistica, cioè lo studio scientifico della lingua, e della semiotica contemporanea, cioè lo studio dei segni in quanto usati come sistemi di comunicazione dei vari linguaggi.
Il linguaggio indica, per ogni comunità, la relazione che essa ha con la realtà che la circonda. Il linguaggio è un tutt’uno con noi stessi: in esso ci definiamo e vi costruiamo il nostro mondo.
Ogni linguaggio è un mondo di cui i parlanti possiedono la mappa.
È sugli studi teorici di De Saussure (primo ‘900) che si fonda la semiotica, lo studio dei segni linguistici.
Saussure individua nel SEGNO LINGUISTICO l’elemento principale e minimo della comunicazione.
Egli definisce il segno come l’unione di un significante, cioè la parte del segno che si percepisce con i sensi, e di un significato, cioè il concetto che viene richiamato. Si parla di “concetto” per il significato, cioè l’immagine mentale., e di “immagine acustica” per il significante, in quanto esso appartiene al piano dell’espressione, è tutto ciò che si sente nella lingua parlata e si vede della lingua scritta.
Un segno è ciò che risulta dalla combinazione del significante e del significato.
È come un foglio con un fronte e un retro, uno non può esistere senza l’altro.
La caratteristica più importante del segno, per Saussure, è l’arbitrarietà: un segno è arbitrario in quanto la correlazione tra un determinato significante e uno specifico significato richiamato è una convenzione della società che utilizza quel segno. Quindi, ogni lingua crea i propri segni convenzionali e il significato può variare in base a fattori sociali o soggettivi.
L’organizzazione dei fenomeni comunicativi viene classificata e studiata per livelli:
La sintassi: studia l’organizzazione e la combinazione degli elementi della comunicazione;
La semantica: si occupa del rapporto tra la comunicazione e i suoi oggetti;
La pragmatica: studia il rapporto tra la comunicazione, gli interlocutori e l’ambiente. Studia le azioni che si svolgono per mezzo della comunicazione, chiamati “atti linguistici”.
Come illustrato più avanti, il linguaggio costituisce una vera e propria azione e ogni atto comunicativo, secondo la teoria di Austin, può essere studiato rispetto a tre livelli di azione: atto locutorio, atto perlocutorio e atto illocutorio.
1.7 COMUNICAZIONE VERBALE
La comunicazione verbale utilizza il linguaggio, scritto o parlato.
Il linguaggio assume significato diverso, a secondo di chi parla, dello scopo per il quale viene usato, in base alla situazione. Alle parole, infatti, è attribuito un significato simbolico.
In ambito sanitario, particolare attenzione va posta al linguaggio specialistico che può bloccare il processo comunicativo, limitando lo scambio e la comprensione.
Il linguaggio deve qui essere chiaro e comprensibile per chi ascolta Occorre utilizzare termini e parole note a entrambi, che abbiano lo stesso significato.
Risulta importante non dare nulla per scontato e verificare sempre che la persona abbia compreso l’informazione trasmessa.
Jakobson ha fatto una classificazione delle varie funzioni della lingua:
La funzione emotiva o espressiva
La lingua ha una funzione emotiva o espressiva quando consente di comunicare sentimenti, pensieri, opinioni.
Quando, per esempio, un ragazzo e una ragazza si confessano il loro amore, ma anche quando nel discorso viene aggiunta un’esclamazione o un’interiezione; è tipica di giudizi, critiche, commenti, diari, confessioni, autobiografie.
Funzione informativa o denotativa
È la funzione utilizzata per testi di carattere scientifico, manuali di istruzione, orari ferroviari, verbali. Viene usata ogni volta che la comunicazione è oggettivo. È però presente, non da sola, in ogni comunicazione. Infatti, ogni volta che comunichiamo, diamo un qualsivoglia tipo di informazione.
Funzione fatica o di contatto
Questa funzione viene svolta per entrare, mantenere o interrompere il contatto con il nostro interlocutore.
Si tratta generalmente di saluti, esclamazioni, interiezioni.
Funzione poetica o connotativa
Utilizziamo questa funzione ogni volta che arricchiamo la nostra esposizione di vocaboli non essenziali ma utili a rendere più armonico e piacevole il discorso.
Talvolta anche la disposizione inconsueta delle parole all’interno di una frase evidenzia la funzione poetica.
Naturalmente il testo, che più di ogni altro utilizza la funzione poetica, è la poesia.
Funzione metalinguistica
È la capacità della lingua di descriversi.
Quando non conosciamo il significato di una parola, consultiamo il vocabolario, cioè il testo in cui la lingua parla di sé.
Funzione persuasiva o conativa
È la funzione della pubblicità, dei discorsi politici, delle leggi, dei divieti. È utilizzata ogni volta che l’emittente cerca di convincere il/i destinatario/i a fare qualcosa.
La comunicazione verbale, insieme a quella non verbale, costituisce il messaggio ed è, in pratica, il tramite attraverso cui il messaggio assume significato.
Tuttavia, spesso ci dimentichiamo che, quello che trasmettiamo, deve essere interpretato dal ricevente e trascuriamo la chiarezza e la semplicità del parlare.
Per quanto riguarda la comunicazione verbale si individuano diversi strumenti coinvolti nell’interazione:
elementi cinetici e prossemici, come il movimento del corpo e la sua disposizione nello spazio, la gestualità;
i fattori prosodici quali la tonalità della voce, il ritmo etc; il contatto oculare e l’organizzazione dei tempi;
oltre agli elementi più strettamente linguistici: scelta della lingua, variazione lessicale, etc.
Questi segnali concorrono anche alla costruzione di specifici contesti discorsivi all’interno dei quali viene trasmesso non solo il contenuto della comunicazione, ma anche tutto ciò che determina il tipo di relazione tra i parlanti e modella la situazione comunicativa.
Il messaggio comunicato, infatti, non è solo portatore del contenuto esplicito, ma anche di un significato che specifica il modo in cui il messaggio deve essere considerato e qual è la natura della relazione tra le persone coinvolte nell’interazione.
Tale aspetto viene denominato di metacomunicazione e fornisce informazioni su come l’emittente definisce le identità di ruolo dei partecipanti e quindi informa sulla definizione della relazione stessa.
È importante avere consapevolezza della funzione metacomunicativa per realizzare una comunicazione per l’altro, in quanto occorre rendersi conto sia che esiste una variabilità soggettiva nel significato attribuito ai termini, la quale rende possibili diverse interpretazioni, sia che esistono diversi schemi di riferimento in funzione dei diversi contesti all’interno dei quali deve essere decodificato il messaggio.
1.8 COMUNICAZIONE NON VERBALE
Gli aspetti non verbali della comunicazione sono usati nella vita quotidiana in modo così naturale e spontaneo che è difficile esserne completamente consapevoli.
La comunicazione non verbale fa riferimento a tutti i segni che la persona utilizza e che non riguardano la parola in quanto contenuto.
Si tratta quindi dell’espressività facciale, corporea, del nostro look; è il linguaggio del nostro corpo, ma anche del tono della voce o del volume, per esempio.
La comunicazione non verbale utilizza prevalentemente un codice analogico, cioè riproduce per immagini ciò a cui si riferisce, quindi
utilizzando gesti, espressioni facciali, etc.
La comunicazione verbale utilizza, invece, un codice digitale, cioè composto da segni arbitrari, ossia simboli convenzionali.
La convenzionalità esiste anche nella comunicazione non verbale e dipende dalle diverse culture che influenzano i comportamenti delle persone.
Si pensi, per esempio, al segno “OK” che per noi significa “tutto bene”, mentre per i Giapponesi significa “denaro” e per i Greci è un insulto.
La comunicazione non verbale può essere usata da sola o insieme a quella verbale.
È uno strumento comunicativo molto importante, più di quello verbale.
Essa infatti rappresenta il principale mezzo per esprimere sentimenti ed emozioni.
Poiché le interazioni vengono stabilite, sostenute e interrotte attraverso segnali non verbali, ciò che viene percepito di un discorso verbale è influenzato in modo significativo dal comportamento non verbale, ossia pensieri e sentimenti veicolati attraverso gesti, espressioni facciali, postura e contatto fisico.
La comunicazione non verbale e paraverbale influenza almeno per il 70% il messaggio trasmesso. Se emergono discrepanze tra i contenuti espressi e il comportamento non verbale, l’efficacia della comunicazione può diminuire notevolmente.
Gli elementi principali della comunicazione non verbale sono:
Lo sguardo
è un segnale comunicativo molto intenso.
Mantenere un buon contatto oculare durante una conversazione è un modo per dichiarare la propria sincerità su quanto si sta dicendo.
Gli sguardi scambiati durante un’interazione forniscono informazioni specifiche sulla presentazione di sé ed è attraverso lo scambio di sguardi dati e ricevuti che regoliamo il nostro comportamento rispetto all’interlocutore.
Attraverso lo sguardo è anche possibile comunicare gli atteggiamenti interpersonali, come le relazioni di dominanza e status.
La mimica facciale
è l’espressione del viso.
Attraverso il movimento delle sopracciglia e della fronte, l’uso del sorriso e il movimento degli occhi, si trasmettono, in maniera piuttosto inequivocabile, le emozioni che si stanno provando.
Un’espressione rilevante per la comunicazione non verbale è il SORRISO; esso indica disponibilità, invito all’avvicinamento.
Molti studiosi ritengono che il sorriso non sia legato in modo assoluto alle emozioni, ma principalmente riguardi le interazioni sociali: il sorriso è utilizzato come promotore e facilitatore di relazione e del suo mantenimento.
Una persona assertiva ha una buona e congrua mimica facciale che accompagna ciò che sta dicendo.
La gestualità
tutti i movimenti delle mani e di altre parti del corpo per descrivere o enfatizzare il discorso. L’uso delle mani, in particolare, è maggiormente legato al linguaggio parlato.
La voce, il tono e il volume
attraverso i quali comunichiamo il nostro umore o le nostre intenzioni.
Una persona assertiva avrà una voce chiara, rilassata, ben calibrata.
Si distinguono dunque tre parametri che determinano le caratteristiche verbali della voce:
il tono, dato dalla frequenza della voce, è acuto o basso. Permette di dare un accento interpretativo alle parole pronunciate;
l’intensità, invece, riguarda il volume della voce che permette di enfatizzare singole parole o espressioni del discorso;
la velocità di successione delle parole e delle pause interne al discorso.
Gestione dello spazio
è la Prossemica, ovvero la scienza che studia il significato culturale dello spazio. Ogni corpo, infatti, si colloca in uno spazio all’interno del quale assume una certa orientazione o una postura rispetto ad altri.
Lo studio dei movimenti di un individuo nell’ambiente fisico permette di comprenderne aspetti della personalità, stati emotivi, valori, etc.
Il rapporto dell’uomo con lo spazio è visibile nel suo comportamento territoriale, cioè nella sua difesa dell’area personale dall’invasione o intrusione altrui, non solo fisicamente, ma anche attraverso suoni, odori o sguardi prolungati, spesso non voluti.
Gli elementi che comprendono il comportamento spaziale sono:
La distanza interpersonale, significativa dal punto di vista sociale, è indice immediato del rapporto tra gli interlocutori e del tipo di relazione che intercorre tra loro. Questa distanza varia da cultura a cultura e dalle condizioni socio ambientali del contesto in cui avviene l’interazione (per esempio, il contatto fisico – e quindi una distanza di tipo intimo – all’interno di un ascensore affollato). La distanza non coincide con le dimensioni fisiche della persona, ma esiste una sorta di “bolla” intorno a noi, definita “spazio personale”. Si possono definire quattro tipi di distanza: intima, personale, sociale e pubblica.
L’orientazione ha anch’essa la funzione di comunicare gli atteggiamenti interpersonali e le intenzioni relazionali.
Vi sono due orientazioni principali che vengono assunte: “fianco a fianco”, tipica dei rapporti collaborativi e amicali, e “faccia a faccia”,assunta per relazioni formali e più competitive.
Il contatto corporeo è la forma più primitiva di azione sociale.
Esistono differenze interculturali nell’uso e nel significato di questa forma di comunicazione. Il contatto corporeo ha anche la funzione di segnale regolatorio dell’interazione. Infatti, nel momento in cui si invade lo spazio personale altrui, se non vi è condivisione tra le parti, il contatto può essere rifiutato, comunicando di non voler cambiare il livello di formalità dell’interazione in atto.
La postura riguarda i movimenti del nostro corpo che riflette il nostro stato d’animo. La postura è la posizione del corpo, più o meno consapevolmente assunta in relazione al contesto e all’altro interlocutore.
La postura risulta essere profondamente in relazione con il nostro stato emotivo e tono muscolare, che diventa a sua volta mezzo di comunicazione di affetti ed emozioni. Se ci sentiamo tristi, infatti, spesso il nostro tono muscolare è piuttosto rilassato; invece, se siamo tesi e in ansia, ci sentiamo come irrigiditi. Tutto questo traspare nella relazione con gli altri.
1.9 PRINCIPALI FUNZIONI DEL COMPORTAMENTO NON VERBALE
Ripetere quanto viene detto verbalmente. Annuire mentre si dice di sì è un esempio di ripetizione. Gran parte del comportamento nonverbale è ridondante;
Sostituire parti del messaggio verbale. Simboli visivi possono prendere il posto delle parole. Per esempio, un sorriso può rendere superfluo dire di sì;
Completare o chiarire un messaggio verbale. Messaggi non verbali possono aggiungere ulteriori significati a quanto detto con le parole;
Contraddire il messaggio verbale. In questi casi il risultato che si ottiene è una comunicazione ambigua o sarcastica;
Rinforzare il contenuto verbale. Per esempio, indicare con il dito o battere i pugni sul tavolo.
1.10 ASPETTI CHIAVE DELLA COMUNICAZIONE NON VERBALE
1.11 OSTACOLI ALLA COMUNICAZIONE
La comunicazione non è una mera trasmissione di informazione.
La comunicazione è RELAZIONE.
Un principio fondamentale è il seguente: “ogni comunicazione procede su due livelli, il piano del contenuto e il piano della relazione, ed è quest’ultimo a definire il primo” (P.Watzlawich, “La pragmatica della comunicazione umana”).
Il contenuto è l’informazione che vogliamo trasmettere; il piano della relazione indica proprio il tipo di relazione che vogliamo avere con l’altro e il modo in cui il messaggio deve essere interpretato (cfr definizione di metacomunicazione).
Per esempio, possiamo dire “chiudi la porta” (quindi l’informazione) in modi diversi: se urliamo (quindi utilizziamo un tono di voce alto), il significato recepito sarà di un tipo; invece, se la stessa informazione la diamo utilizzando un tono di voce pacato e gentile, il significato sarà diverso ed anche il tipo di relazione tra i comunicanti sarà definito in altromodo.
Oppure, pensate ad una frase del tipo: “lascia sempre in giro il tubetto della colla aperto e vedrai poi che allegria quando vorrai usarlo di nuovo”.
Immaginatevi ora l’atteggiamento che può assumere la persona che dice tali parole: sarà indicativo per capire che il contenuto non è esattamente uguale al significato dato alla frase. Ed è indicativo anche del tipo di relazione che si vuole sottolineare tra le due persone.
Gli ostacoli alla comunicazione possono sorgere nel momento in cui il piano della comunicazione e quello della metacomunicazione sono incongruenti.
Così, quello che viene comunicato, non coincide con il significato dello stesso.
Altri conflitti comunicativi possono sorgere per ulteriori incongruenze.
A tal proposito, vi è la Teoria della Dissonanza Cognitiva di Festinger (1957).
Il concetto di “dissonanza cognitiva” è stato introdotto per descrivere la condizione in cui le nostre credenze, opinioni e nozioni, contrastano tra loro (dissonanza per incoerenza logica), o con le tendenze del comportamento (dissonanza per l’esperienza passata), o con l’ambiente in cui ci si trova ad operare (dissonanza per costumi culturali).
In tutti questi casi, la presenza di una dissonanza fa sorgere pressioni per ridurla o eliminarla.
Quando ciò è possibile, noi possiamo farlo attraverso:
il mutamento della propria opinione;
il cambiamento del proprio comportamento;
il mutarsi dell’ambiente in cui ci si trova ad operare;
l’integrazione di un nuovo elemento cognitivo (informazione) che si aggiunga a quelle in nostro possesso, così da modificare il rapporto con gli elementi dissonanti.
Ma se consideriamo la comunicazione come relazione, illuminante è la teoria degli atti linguistici di Austin (1962): il fenomeno linguistico va considerato dal punto di vista pragmatico, nel senso che parlare è agire …
Vi sono tre atti che vengono eseguiti simultaneamente quando diciamo qualcosa:
atto interlocutorio, è l’atto di enunciare una frase ed implica la capacità fisica di emettere suoni, la conoscenza e l’uso del codice grammaticale;
atto perlocutorio, cioè la produzione di determinati effetti su sentimenti, pensieri e azioni dell’ascoltatore;
atto illocutorio, è l’affermazione, la promessa costituita dall’enunciazione di una frase in virtù della forza ad essa associata per convenzione.
Quest’ultimo atto è al centro della teoria di Austin, in quanto esso aiuta a definire e a capire il modo in cui usiamo il linguaggio.
La comunicazione conflittuale si avvale soprattutto del linguaggio verbale tra individui e la sua caratteristica fondamentale è l’intenzionalità, intesa come risultato di attribuzione da parte di un attore esterno, cioè il ricevente.
Dunque, comunicazione e azione sono strettamente legate, e di questo legame se ne occupa la pragmatica, ovvero lo studio dell’uso dei segni e della loro relazione con i soggetti comunicanti. La comunicazione diviene così un fenomeno pragmatico, fondato sull’agire comunicativo dei soggetti.
La conclusione è che la comunicazione non va più vista come un tentativo di trasmette un senso e come il risultato, dalla parte dell’ascoltatore, di un’interpretazione. Il messaggio ha più sensi perché, oltre ad essere atto linguistico, è qualcosa carico di indizi sull’attore stesso, sul suo ruolo in una determinata situazione, sul suo rapporto con l’ascoltatore, etc.
Una conseguenza è che la comunicazione non è solo un atto, ma più atti, e causa contemporaneamente più effetti.
La comunicazione consiste proprio nella contemporanea presenza di molteplici azioni, non sempre coordinate e in armonia tra loro.
Questo può essere motivo di conflitto interpersonale.
2. PERCHÉ NASCE UN CONFLITTO COMUNICATIVO
Il tutto dipende dal riconoscimento delle intenzioni di chi ci sta parlando, da come interpretiamo il messaggio, quale livello stiamo considerando,dalla sincronia delle diverse azioni coinvolte, etc..
Tali situazioni ci capitano tutti i giorni e molto spesso non ci rendiamo conto di quello che sta succedendo, in realtà perché diamo peso al contenuto dell’informazione senza badare al reale significato della nostra relazione in quel momento.
2.1 PRINCIPIO DI COOPERAZIONE DI GRICE
Il filosofo del linguaggio spiega questi processi con il “principio di cooperazione”, secondo il quale due individui che comunicano, proprio perché consapevoli di essere comunicanti, presuppongono una cooperazione di base e quindi l’interpretazione è spinta dalla supposizione che ciò che l’altro dice abbia un senso.
Grice elabora una tipologia di regole, che egli chiama “massime conversazionali”, le quali definiscono gli aspetti di una comunicazione ideale, coerente, informativa e pertinente.
Da queste massime, passa ad analizzarne le violazioni. Se, per esempio, non viene data una risposta diretta ad una domanda, ma una risposta indiretta altrettanto chiara, il principio di cooperazione ci porta ad accettare la risposta non diretta, in quanto si assume che il parlante cooperi su un altro livello. Per esempio, se alla domanda “Sai se il Sig. Rossi è in casa?”, ci viene risposto in modo indiretto: “la macchina è parcheggiata davanti al cancello”, capiamo che la risposta è “SI”, anche se non ci è stato detto in modo diretto.
Altro esempio sono le ironie, per cui quanto affermato è in apparenza non pertinente, ma è chiaro che il parlante ha inteso dire esattamente il contrario di quello che ha letteralmente espresso.
L’ironia è spesso un mezzo affiliativo, una forma di humour che alleggerisce il discorso, ma può anche diventare strumento di offesa.
La distorsione della comprensione dei significati intesi può, inoltre, essere volontariamente utilizzata come strumento strategico nelle interazioni conflittuali: intendere, per esempio, letteralmente qualcosa che l’altro ha espresso palesemente come metafora, o viceversa.
In questi casi, la parola di uno viene sfruttata dall’altro, manipolata e distorta per squalificare l’avversario e imporre la propria ragione.
2.2 CONFLITTO TRA COMUNICAZIONE E METACOMUNICAZIONE
Si ha spesso una forma di opposizione conflittuale tra comunicazione e metacomunicazione, cioè tra il livello in cui si trasmette un contenuto e quello in cui si commenta e si interpreta la trasmissione stessa.
Un esempio è la squalifica, che agisce sulla comunicazione stessa, avendo così valore metacomunicativo, perché nega la relazione comunicativa: la squalifica nega la persona in quanto parlante o addirittura in quanto persona.
Non è un semplice rifiuto del contenuto del messaggio.
Se percepita, la squalifica può scatenare una reazione molto più violenta di quella che si avrebbe verso un semplice rifiuto. Se non viene percepita, si ha confusione tra i livelli, e la relazione è resa impossibile, non ricevendo rifiuto o accettazione di ciò che viene detto.
Gruber (1994) distingue due gruppi principali di strategie tra le varie forme di squalifica: quelle di dominanza, in relazione diretta al parlante, e quelle di diffamazione, in relazione ad un pubblico.
La dominanza è tutto ciò che cerca di imporre una ragione al di là dei modi comuni di argomentare e persuadere, per mezzo di svalutazioni della persona. La diffamazione necessita di un pubblico e la sua efficacia consiste nel fatto che l’interlocutore colpito ha maggiore difficoltà a reagire perché escluso dal dialogo dell’altro con il pubblico.
2.3 FENOMENO QUADRILATERO DI Schultz Von Thun
Egli descrive la comunicazione come un fenomeno quadrilatero. Ogni messaggio ne contiene in realtà sempre quattro:
il contenuto;
la relazione che il parlante ha con l’ascoltatore;
l’appello, vale a dire ciò che per mezzo del messaggio si vuole dall’altro;
l’immagine di sé, ovvero il ruolo, lo status con cui il parlante si rivolge all’ascoltatore.
In genere ci si concentra sempre su un aspetto, a seconda delle circostanze e dell’indole personale, senza tener conto degli effetti degli altri lati del messaggio. I conflitti sorgono, quando un parlante intende comunicare con un aspetto e il ricevente ascolta percependone un altro.
2.4 SEQUENZE DI DISSENSO DI Gruber
In un altro studio sui litigi viene definito il concetto di “sequenza di dissenso”, ovvero lo scambio dialogico elementare di tipo conflittuale.
Una sequenza di dissenso può essere contenutistica o strutturale: la prima è uno scontro sul contenuto e origina dalla differenza di convinzioni e opinioni tra i due agenti.
La seconda ha origine dal mancato rispetto della struttura del discorso e delle norme dell’interazione comunicativa. L’ascoltatore, infatti, può violare le complesse norme pragmatiche e sociali del turn taking, l’avvicendarsi dei turni tra parlanti, attraverso delle interruzioni o sovrapposizioni.
Una sequenza di dissenso, che ha origine da un’interruzione, è spesso il segnale di una discussione in fase di escalazione, soprattutto quando i segnali riparatori sono volontariamente omessi.
Ai momenti di escalazione seguono spesso anche mosse che tentano di ristabilire l’equilibrio tra gli agenti. L’alternarsi di fasi aggressive e fasi conciliatorie è un gioco tra atti di autoaffermazione e offerte di compromesso: il conflitto comunicativo è una dialettica tra competizione e cooperazione, una dinamica di attacco e difesa, di deterrenza e concessione.
La natura conflittuale di uno scambio può quindi essere rilevata solo tenendo presente l’interazione nel suo complesso.
2.5 PERCEZIONI E INTERPRETAZIONI
In ogni tipo di conflitto gli attori che interagiscono si basano sulle percezioni e sulle cognizioni che hanno l’uno dell’altro, influenzando reciprocamente le aspettative.
L’interpretazione è, in fondo, un processo necessario di organizzazione di tutte le informazioni che si ricevono in schemi e questi ultimi rispondono a un’esigenza di riduzione della complessità dell’ambiente.
In questo senso, gli schemi provvedono anche alla necessità di stabilire convenzioni interindividuali, utili alla comprensione reciproca e alla cooperazione.
Come già detto a proposito della dissonanza cognitiva, un individuo tende a mantenere coerenti le proprie percezioni e conoscenze. In questo caso gli schemi interpretativi svolgono proprio questa funzione, mantenendo, per esempio, una stretta relazione tra la sfera dei bisogni e quella degli obiettivi. I messaggi che giungono all’individuo tendono quindi a essere interpretati in modo conforme alle proprie aspettative o desideri.
Se non è possibile mantenere una tale coerenza si cerca di dare dei fatti un’interpretazione che richieda comunque il minor cambiamento possibile del proprio sistema di credenze.
La percezione selettiva è uno dei meccanismi alla base dei processi di escalazione, che può essere definita come un aumento parallelo di intensità e di violenza in un conflitto. La tensione alla coerenza, alla riduzione della complessità e alla percezione selettiva, caratterizzano i fenomeni di escalazione.
Un sistema d’azione è composto da un agente, dai suoi bisogni, atti e scopi. La percezione deve tener conto di tutto questo, ma può distorcere ognuno di questi elementi. Si possono percepire differentemente i bisogni dell’altro (o non percepirli affatto) o gli scopi di un’azione.
Lo scopo è, in fondo, il frutto di un’interpretazione di una serie di atti,perché è la determinazione delle intenzioni dell’agente. La dissimulazione di una percezione può anche essere una scelta razionale: il far finta di non vedere certi bisogni può evitare di dovere tenere conto di essi.
2.6 ASPETTATIVE
Le aspettative che ci formiamo riguardo una persona dipendono anche dal ruolo sociale che essa riveste.
La comunicazione è, infatti, un’interazione tra individui e dunque è un fenomeno sociale. Perciò gli individui, entrando in relazione, rivestono appunto un ruolo, cioè si comportano e agiscono secondo modalità che vengono riconosciute come proprie di quel tipo sociale.
Con le aspettative che si formano circa quel determinato ruolo, si prevedono i comportamenti e reazioni di quella persona in determinate situazioni; il ruolo è, dunque, un insieme di comportamenti possibili e tipici.
È anche la determinazione di uno status, di un modo di apparire di fronte agli altri ed è in stretta connessione con i ruoli degli altri attori attraverso i quali esso si definisce. È possibile che ci sia contrasto tra individui perché adottano ruoli tra loro non compatibili.
Ogni ruolo si definisce in modo complementare agli altri, ma. quando ciò viene meno, si crea uno stato di squilibrio.
3. COME STABILIRE UNA BUONA SITUAZIONE COMUNICAZIONALE
Si parla di processo di comunicazione inteso come finalizzato alla messa in comune, tra due o più interlocutori, di esperienze, informazioni, pensieri ed emozioni. Occorre adottare la logica dello scambio nella relazione comunicativa, e non quella del possesso.
Alla base di ogni buona situazione comunicazionale c’è l’atteggiamento favorevole a essa: non c’è relazione se non c’è volontà e motivazione.
E, ovviamente, anche da parte dell’interlocutore. Quindi, in primo luogo, è necessario aver voglia e intenzione di creare una buona comunicazione con l’altro, predisponendoci all’ascolto efficace.
3.1 COMPETENZA COMUNICATIVA
Per fare tutto questo occorre anche avere capacità, conoscenze utili e necessarie, oltre che essere sufficientemente abili nel loro utilizzo.
Si parla così di competenza comunicativa.
La competenza comunicativa è qualcosa che si sviluppa nell’individuo grazie ad un processo di apprendimento in costante evoluzione, nell’arco di tutta la propria vita. Essa permette di caratterizzare i modo adeguato e corretto l’interazione, rendere i comportamenti socialmente e professionalmente più competenti, attraverso la capacità di utilizzare parole comprensibili per chi ascolta, infine, saper chiedere e dare informazioni. La competenza comunicativa si caratterizza soprattutto per le risorse cognitive, affettive e comportamentali, che devono essere possedute dall’individuo: si fa riferimento alla presentazione di sé, alla capacità di esprimere sentimenti ed emozioni, alla capacità di ascolto e alla chiarezza nell’espressione.
Si può scomporre la competenza comunicativa secondo queste dimensioni:
Competenza linguistica: è la capacità di produrre e riconoscere suoni e significati; è l’abilità di organizzare parole in frasi e frasi in testi più complessi;
Competenza paralinguistica: è la capacità di comunicare attraverso i gesti, i movimenti del corpo e la mimica;
Competenza prossemica: è la capacità di variare la distanza interpersonale e i rapporti spaziali nella comunicazione, secondo i codici culturali di ogni società;
Competenza performativa: è la capacità di realizzare la propria intenzione comunicativa attraverso la comunicazione, ossia far in modo che l’intenzione comunicativa (quello che si sta pensando) sia espressa in modo corretto verbalmente e non si possa fraintendere;
Competenza socioculturale: è la capacità di riconoscere gli elementi distintivi delle diverse culture, le situazioni sociali e i rapporti di ruolo, così da adeguare la comunicazione sia al contesto, sia alle proprie intenzioni.
3.2 L’ASCOLTO ATTIVO
L’ascolto è parte costituente della comunicazione se lo definiamo come processo finalizzato alla messa in comune di esperienze, pensieri ed emozioni.
Ma perché tale processo sia autentico occorre volontà e motivazione ad aprirsi all’altro, ad accettare la logica dello scambio e non quella del possesso.
Il reciproco rispetto e la reciproca fiducia sono altrettanto indispensabili. Risulta importante innanzitutto essere capaci di ascoltare noi stessi, in quanto si deve avere ben chiaro il significato di quanto stiamo comunicando.Il rischio è non essere coerenti tra quanto trasmettiamo e il modo in cui lo facciamo, generando così conflitti.
La semplice arte di ascoltare non è poi così semplice.
È faticoso ascoltare perché produce un cambiamento. Infatti, occorre prestare un’intensa attenzione: è necessario dimenticare e subordinare noi stessi al bisogno di ascolto dell’altro.
L’ostacolo più frequente è rappresentato dalle reazioni emotive e difensive che scaturiscono in noi e premono per uscire e rispondere alle parole altrui.
Ascoltare è faticoso anche perché implica mostrare interesse, preoccupazione, legittimare, etc.
L’ascolto ha un duplice fine: assimilare informazioni e far da testimone a ciò che l’altro esprime. La legittimazione che ci arriva dall’altro, nel momento in cui siamo noi ad essere ascoltati, è fondamentale per noi stessi, in quanto rappresenta un sostegno al bisogno di autoaffermazione e rende così significativi i nostri sentimenti, le nostre azioni.
Essere ascoltati è importante perché ci offre sicurezza, permette di mantenere la nostra vitalità, soddisfa anche il bisogno di sentirci legali ad altri.
Non essere ascoltati crea una spaccatura tra il nostro vero e il falso e non costituisce una semplice divergenza tra quanto è socialmente condivisibile e quanto è invece privato.
L’Io è un progetto in evoluzione nella consapevolezza di sé e tale sviluppo è dovuto proprio alle relazioni interpersonali. Noi ci formiamo in base all’esperienza del riscontro degli altri. Esistono diversi modi per colmare la distanza che esiste tra le persone, per esempio, l’affetto. Tuttavia, la parola è lo strumento primario per essere compresi, percepiti e accettati. Spesso però il nostro bisogno di comprensione è mascherato da meccanismi di difesa.
Il non comunicare e non condividere le nostre emozioni e pensieri non permette di sentirci completi.
Ascoltare richiede dunque uno sforzo che spesso è filtrato dalla nostra sensibilità attraverso forme di aspettative preconcette e di reazioni emotive difensive.
Noi trascendiamo l’esperienza immediata delle nostre relazioni,riproducendola nella nostra mente, all’interno della quale è possibile manipolare le diverse possibilità. In questo modo si formano però immagine residue di noi stessi, degli altri e del mondo.
Secondo la “Teoria delle relazioni oggettive” spesso si reagisce all’altro reale, ma anche all’immagine interiore che si ha. Questo è dovuto ad aspettative e convinzioni preconcette formatasi su esperienze passate.
In fondo, ascoltare è un atteggiamento di cura e interesse verso gli altri.
Si ascolta perché si ha a cuore l’altra persona ed è anche a nostro beneficio sforzarsi di ascoltare in modo empatico.
Questo stimola la nostra stessa crescita e il rapporto con l’altro.
Ascoltare fa parte del nostro dovere morale di rispetto reciproco.
Pensando alla relazione di aiuto, gli input e le informazioni utili nella relazione di aiuto ci giungono dalle espressioni verbali di chi abbiamo di fronte. Ciò che le persone dicono e il modo in cui lo dicono, ci fa capire molto su come queste persone vedono sé stesse e su come vedono il mondo intorno a loro.
Le espressioni verbali sono, dunque, la più ricca fonte di comprensione empatica.
Noi diamo, a chi cerchiamo di aiutare, la nostra piena e incondizionata attenzione, solo se siamo pronti ad ascoltare le loro espressioni verbali.
Quando più stiamo attenti agli indizi esterni che le persone ci presentano, tanto più siamo in grado di dare ascolto ai messaggi interni che riflettono le loro esperienze interiori.
Vi sono molti modi in cui è possibile migliorare le nostre abilità di ascolto.
Tra questi:
avere un motivo per ascoltare;
sospendere il nostro giudizio;
concentrarci su chi abbiamo di fronte e sul contenuto;
ricordare le espressioni che tale persona usa;
prestare attenzione a quelle che sono le tematiche ricorrenti.
Ascoltare ci prepara, quindi, a rispondere empaticamente. È importante sospendere il nostro giudizio personale mentre ascoltiamo.
Se intendiamo veramente ascoltare, dobbiamo momentaneamente metter da parte le cose che diciamo a noi stessi.
Sospendere il giudizio significa sospendere i nostri valori e le nostre opinioni rispetto al contenuto di ciò che le persone ci dicono.
Può darsi che non approviamo il comportamento di tale persona, ma dobbiamo aver ben presente che le nostre sensazioni non c’entrano con le esperienze di chi ci sta parlando.
La fatica dell’ascolto sta nella concentrazione che dobbiamo avere: dobbiamo raccogliere tutte le nostre energie, emotive ed intellettuali, per fare ciò.
Alla maggior parte di noi è sempre stato insegnato a non stare a sentire, a non ascoltare. Anni di condizionamenti hanno portato a questo.
Siamo distratti perché non vogliamo stare a sentire. Travisiamo le espressioni a degli altri per evitare eventuali conseguenze spiacevoli di una vera comprensione.
3.3 RIASSUMENDO
Udire è un fatto fisico.
Significa percepire, sentire per mezzo dell’orecchio; ascoltare è un’azione intellettuale ed emotiva, significa porre attenzione per udire.
Ascoltare, quindi, non si esaurisce nel semplice fatto di sentire e registrare, ma implica un atto intenzionale.
L’ascolto rappresenta la competenza comunicativa fondamentale.
Esistono quattro tipi di ascolto:
ascolto attivo: porta ad una comunicazione più efficace; è un metodo per migliorare le capacità di ascolto, in modo da essere efficienti nel lavoro e nella vita privata;
ascolto passivo: questo è il tipo di ascolto inefficiente e improduttivo; è quello che si può riscontrare quando si sentono le parole ed esse entrano in un orecchio ed escono dall’altro;
ascolto selettivo: questo è probabilmente il tipo di ascolto più comune e si riscontra quando si sente solo quello che si vuole sentire, ossia si filtra il messaggio. Come l’ascolto passivo, anche questo è inefficace ed improduttivo;
ascolto riflessivo: come quello attivo, pone attenzione a tutto il messaggio. Ciò è particolarmente importante, se si sta trattando un argomento complicato o se si sta cercando di risolvere un conflitto.
Esso viene utilizzato per chiarire quanto viene detto, portando alla reciproca comprensione.
4. I FILTRI
I filtri sono le modalità di reazione a informazioni, idee, parole e anche alla comunicazione non verbale che ognuno acquisisce durante la vita.
Ogni persona filtra le informazioni che le giungono attraverso le proprie tendenze, esperienze, aspettative e reagisce di conseguenza.
I filtri immediati sono quelli che variano secondo la situazione del momento e possono essere influenzati dai filtri a lungo termine anche se, per la maggior parte, sono costituiti da fattori di carattere contingente.
Filtrare le informazioni attraverso le proprie opinioni, positive o negative, porta a una comunicazione inefficace: mettere da parte i sentimenti, poi, ascoltare attivamente e obiettivamente quanto viene detto. I filtri a lungo termine sono costituiti da valori, apporti religiosi, cultura, luogo in cui si è cresciuti e anche dalle tendenze politiche dei genitori. Senza l’ascolto attivo, le reazioni individuali dipendono dai filtri emotivi a lungo termine.
Quando si tratta di filtri a lungo termine, meglio capire se stessi, i propri valori, le proprie esperienze passate e anche i ricordi della propria infanzia, più si è in grado di ascoltare con partecipazione e senza preconcetti coloro con cui non si concorda.
I filtri emotivi e mentali non ci lasciano mai, sono connaturati al nostro modo di comportarci.
Per divenire ascoltatori migliori, si deve imparare a individuare e controllare i filtri che si frappongono tra noi e l’ascolto attivo.
Le aree chiave che influenzano i filtri emotivi sono:
le proprie aspettative;
le relazioni personali;
le esperienze passate;
i propri valori e le proprie opinioni.
Le tecniche per controllarli sono:
individuarli;
allontanarsi da loro mentalmente o fisicamente per minimizzare l’influenza;
concentrarsi per ascoltare con mente aperta,
Ci sono anche ostacoli esterni che diminuiscono la capacità di ascoltare efficacemente.
Nella maggior parte dei casi questi ostacoli possono essere controllati.
Sono di tre tipi:
tipo fisico;
il rumore;
il movimento,
Per esempio, la mancanza di contatto visivo è un ostacolo.
Differenze tra un ascoltatore attivo e uno polemico:
l’ascoltatore attivo ascolta il contenuto; invece, quello polemico lo filtra. L’attivo non giudica il contenuto di quanto viene detto, mentre quello polemico filtra le stesse informazioni, sceglie il contenuto con il quale è d’accordo e quello su cui non concorda e, prima ancora di aver ricevuto l’intero messaggio, formula una conclusione e una risposta, generalmente un rigetto.
L’ascoltatore attivo ascolta lo scopo, mentre quello polemico filtra e giudica lo scopo. L’ascoltatore attivo, quando risponde all’intero messaggio, prende in considerazione obiettivamente lo scopo dell’interlocutore. Quello polemico filtra e giudica lo scopo e fa delle ipotesi sull’interlocutore e il suo messaggio. Egli basa la risposta su queste ipotesi preconcette relative allo scopo.
L’ascoltatore attivo valuta la comunicazione non verbale di chi sta parlando, mentre quello polemico reagisce. L’ascoltatore attivo usa la comunicazione non verbale dell’interlocutore per comprendere il messaggio nella sua interezza; quello polemico reagisce emotivamente, piuttosto che razionalmente, alla comunicazione non verbale dell’interlocutore.
L’ascoltatore attivo sorveglia la propria comunicazione non verbale e i propri filtri, mentre quello polemico non li controlla. Dato che l’ascoltatore attivo risponde all’intero messaggio, egli è attento a controllarlo ed è consapevole dei propri filtri mentali ed emotivi. Quello polemico risponde semplicemente in modo emotivo e non cerca di controllare la propria comunicazione non verbale o i propri filtri.
L’ascoltatore attivo ascolta l’interlocutore senza giudicare e con partecipazione. Invece, quello polemico giudica e valuta l’interlocutore.
L’ascoltatore attivo tenta di capire il punto di vista e i messaggi del suo interlocutore.
Egli comprende che, ascoltando con partecipazione e senza giudicare, si tengono aperti i canali di comunicazione. L’ascoltatore polemico giudica e valuta l’interlocutore sulla base dei propri standard o del suo programma.
4.1 DIECI CONSIGLI PER MIGLIORARE L’ASCOLTO
Eliminate le distrazioni. Allontanatevi con il vostro interlocutore, per quanto più possibile, dalle altre persone.
Se siete troppo occupati per prestare la dovuta attenzione, ditelo con sincerità e franchezza. Se state aspettando una telefonata importante, ditelo prima e scusatevi con il vostro interlocutore quando rispondete.
Prima di invitare altre persone alla conversazione, pensateci.
Il vostro interlocutore potrebbe voler dire qualcosa di personale e riservato. Abituatevi a captare i suoi segnali non verbali.
Imparate a non interrompere spesso, anche se chi lo fa di solito è sollecitato dall’entusiasmo e da quanto viene detto dall’interlocutore. A volte è necessario frenarsi un po’, ascoltando meglio.
Discutete con dolcezza. Non argomentate troppo, per non far sentire l’altro un perdente in partenza. Fate piuttosto domande che inducono a pensare.
Qualcuno vuole solo sfogarsi, ma a qualcuno interessa davvero il vostro parere. Se pensate di avere un buon consiglio da dare, chiedete prima.
Restate con i piedi per terra. Tenete la vostra conversazione sul concreto, non esagerate con la teoria. Cercate di capire quali sono i veri problemi del vostro interlocutore.
Al centro non ci siete voi. Ascoltando, tenete presente che il centro della conversazione non siete voi, ma l’altro. Se volete raccontare qualcosa di voi, scegliete un aneddoto che metta l’altro a suo agio.
Considerate realmente il tempo a vostra disposizione. Non continuate a guardare l’orologio, meglio prestare attenzione a chi vi sta parlando. Se avete poco tempo, meglio dirlo subito.
Siate amichevoli anche nella fretta, mentre conversate attraversando di corsa il luogo di lavoro da una parte all’altra.
Ricordare: non dimenticate quanto di importante è emerso dalla conversazione. L’altro capirà di essere stato realmente ascoltato e considerato.
5. EMPATIA
È attraverso l’empatia che è possibile una sincera partecipazione all’esperienza dell’altro, mantenendo una indipendenza emotiva.
È dimostrato che lo sviluppo dell’empatia eserciti un ruolo importante sulla formazione del giudizio e dell’azione morale. Quando una persona cerca di mettersi nei panni altrui, diventa più tollerante, incline a offrirle aiuto e conforto, necessari in caso di necessità sia materiale, sia psicologica.
Riconoscere l’altro come uguale a sé, inibisce eventuali azioni aggressive nei suoi confronti.
È abbastanza chiaro come l’empatia possa essere considerata l’elemento mediatore determinante del comportamento altruistico: più un soggetto è capace di immedesimarsi nel vissuto altrui, maggiore è la probabilità che egli compia azioni pro-sociali nei suoi confronti.
Il termine Empathy venne coniato da Titchener nel 1909, come traduzione di Einfùhlung, relativo però, in quel periodo, all’estetica.
Lipps (1950) ne dà una formulazione più psicologica, sottolineando come il piacere estetico risieda nel soggetto stesso e non nell’oggetto.
È il soggetto che, osservando un certo gesto, proietta sé stesso sull’altra persona e prova ciò che l’altro sta provando. Così gli oggetti dell’esperienza estetica, come i sentimenti delle persone, sono compartecipati e non solo osservati. Tra gli autori che hanno approfondito la ricerca sull’empatia, si sono evidenziate diverse linee interpretative del fenomeno: una considera maggiormente gli aspetti emozionali-affettivi, un’altra solo quelli cognitivi, un’altra ancora l’interazione tra componenti di tipo cognitivo e socioaffettivo.
Dopo un periodo di valutazione solo cognitiva dell’empatia si è rivalutata la sua natura affettiva, considerando l’empatia in una prospettiva evolutiva, per cui il decentramento cognitivo non dipenderebbe solo da un processo di maturazione, ma anche dall’influsso esercitato dai modelli socio-culturali di appartenenza.
Nell’ambito della prima linea interpretativa, Hoffman (1982) definisce l’empatia come “attività affettiva vicaria”, cioè come risposta affettiva appropriata alle situazioni altrui. Stayer ha analizzato lo sviluppo delle diverse forme di empatia, considerandola “una risposta affettiva, concordante con le emozioni di un’altra persona e con la situazione che essa vive”, la quale comporta differenti mediatori cognitivi che configurano diversi tipi di esperienza empatica.
Un’azione empatica, quindi, richiede sia capacità di elaborazione cognitiva, sia di attivazione emotivo-affettiva, alla cui formazione possono concorrere vari fattori predisposti. Essendo un’esperienza emotiva di condivisione, mediata da processi cognitivi, l’empatia viene considerata un fenomeno non unitario, né dimensionale.
La condivisione emotiva può, infatti, presentare diversi livelli di attivazione, caratterizzati da un differente grado di coinvolgimento nello stato emotivo dell’altro.
La prima forma di attivazione di tale condivisione è il contagio emotivo.
Non è considerata empatia vera e propria, in quanto è condivisione emotiva immediata ed involontaria, caratterizzata da assenza di mediazione cognitiva.
L’uomo ha una tendenza innata al contagio emotivo, cioè possiede la capacità di riconoscere le emozioni e rispondere a queste in modo congruente.
Le forma più evolute di empatia richiedono, invece, una comprensione e una discriminazione delle emozioni altrui, riconosciute e vissute come esterne a sé e come appartenenti ad un’altra persona. L’empatia, infatti, richiede la capacità di riconoscere in modo differenziato le emozioni degli altri; chi osserva deve essere in grado di decodificare in modo corretto l’espressione emotiva altrui, considerando i diversi indici trasmessi dai diversi canali espressivi.
La caratteristica dell’empatia più evoluta consiste, dunque, nel saper condividere in modo vicario le emozioni di un altro, pur avendo chiaro che si tratta di emozioni separate e anche diverse dalle proprie.
Occorre saper rappresentare il vissuto altrui e comprendere che esso può essere diverso dal proprio anche in situazioni simili.
L’assunzione del punto di vista altrui e l’abilità di role taking percettivo, cognitivo ed emozionale, sono aspetti indispensabili, non solo ai fini di raccogliere ciò che percepisce l’altro, ma per la stessa costituzione dei significati morali delle azioni altruistiche.
È solo attraverso la capacità di ascolto che può iniziare il dialogo e la possibilità di accogliere l’esperienza dell’altro.
L’ascolto empatico permette di trascendere dal proprio schema di orientamento, per aprirsi alla struttura della comunicazione dell’emittente.
In questo modo, attraverso la modalità dell’ascolto empatico, vi è soddisfazione e crescita reciproca, perché ci si sente valorizzati all’interno della comunicazione e si rinforza l’empatia reciproca, aumenta la fiducia e la disponibilità altrui.
L’empatia richiede, dunque, come prerequisito indispensabile, la capacità di riconoscere in modo differenziato le emozioni di un’altra persona, cioè saper riconoscere e discriminare in modo corretto che un’altra persona è allegra oppure triste. Questo riconoscimento non è così ovvio.
Esso è il risultato di un processo evolutivo abbastanza complesso e implica che l’osservatore sia in grado di comprendere che gli altri sono persone differenziate e distinte, le quali possono provare stati emotivi interni ed esprimerli attraverso vari canali espressivi. Tale riconoscimento implica anche la capacità di decodificare in modo corretto l’espressione emotiva altrui, prendendo in considerazione gli individui dai diversi canali espressivi trasmessi: facciali, gestuali, etc.
Spesso, sia di fronte a emozioni positive, sia spesso di fronte a quelle negative, si innescano meccanismi di difesa per evitare di essere coinvolti (nel caso di emozioni negative) o perché si prova invidia (per le positive). Uno dei meccanismi è la negazione dell’emozione osservata.
Chi è a contatto quotidiano con la sofferenza (per esempio, il personale sanitario) spesso adotta questo meccanismo, facendo finta di non riconoscere la sofferenza emotiva che gli altri esprimono.
Ciò avviene non tanto perché non si è capaci di discriminare le emozioni altrui, ma per il timore di non sapere modulare una condivisione distaccata: chiudere gli occhi di fronte alle emozioni negative, diventa allora l’unico modo per evitare che il dolore altrui diventi anche il proprio dolore.
Questo però impedisce qualsiasi forma di aiuto alla persona sofferente perché, negando l’emozione altrui, si focalizza l’attenzione su di sé e sui propri bisogni, piuttosto che su quelli degli altri.
Per avere una risposta empatica e prosociale occorre avere la capacità di padroneggiare la propria attivazione emotiva.
Solo le persone con un’attivazione emotiva controllata sono capaci di intervenire, focalizzando l’attenzione sull’altro, sui suoi bisogni e non sui propri.
Solo la capacità di considerare la situazione dal punto di vista dell’altro e con gli occhi dell’altro permette di attuare dei comportamenti prosociali e di aiuto davvero decentrati.
Nei casi in cui manca l’empatia, non manca necessariamente l’aiuto, ma esso è motivato da ragioni più egoistiche e di interesse personale.
Ci sono situazioni in cui l’atteggiamento empatico può risultare pericoloso per la persona. Per esempio, vi possono essere situazioni emotivamente molto forti e la persona può a ragione temere di non essere capace di contenere la condivisione nei limiti della differenziazione del distanziamento cognitivo.
Oppure, vi sono situazioni in cui la vittima sfrutta la propria sofferenza per ottenere vantaggi e la situazione di empatia gioca a suo favore.
6. L’ASSERTIVITÀ E I DIVERSI MODI DI ESSERE ASSERTIVI
L’approccio della Comunicazione Assertiva considera tre tipi differenti stili di comunicazione: assertivo, aggressivo e passivo.
Essi non riguardano propriamente caratteristiche personali, ma sono da considerarsi più caratteristiche comunicative; ogni persona si adegua a uno stile, secondo le circostanze e degli interlocutori.
Una persona può essere più vicina a uno stile comunicativo piuttosto che a un altro, ma si può imparare a monitorare i propri comportamenti e assumere uno stile assertivo, migliorando in questo modo il rapporto con gli altri. Una persona assertiva sa equilibrare, secondo le circostanze, aggressività e passività.
L’obiettivo principale dell’assertività è, infatti, quello di risolvere situazioni critiche e frustranti nel rispetto di SÉ STESSI, consapevoli dei propri DIRITTI, avendo però l’attenzione alla persona che si ha di fronte, per poter mantenere una buona relazione.
Essere assertivi significa rispettare sé stessi, essere consapevoli che non si debbano subire le situazioni, ma che esse debbano essere gestite.
La persona assertiva è quindi una persona che sceglie ciò che è meglio per lei, nel pieno rispetto dei diritti dell’altro a essere sé stesso, e con la disponibilità a gestire, in modo costruttivo e positivo, eventuali divergenze.
6.1 LO STILE ASSERTIVO
Come si riconosce lo stile assertivo?
In generale, lo stile assertivo è quello che tende a porre sullo stesso piano sé stesso e l’interlocutore, a cercare vantaggi per entrambi in un’ottica collaborativa, ad assumersi responsabilità.
Un buon modo per iniziare a riconoscere il comportamento assertivo è quello di saperlo distinguere da quello aggressivo e passivo.
Lo stile assertivo si basa sulla presa di distanze da comportamenti estremi, sia aggressivi, sia passivi, e sulla volontà di cooperare nella comunicazione per ottenere risultati “a somma variabile”, cioè che prevedano un successo personale non basato sulla “sconfitta” altrui, bensì sulla valorizzazione dell’interlocutore. Prevale, nello stile assertivo, la voglia di “collaborare” tra i comunicanti.
Una persona assertiva considera importanti le proprie esigenze, diritti, bisogni, desideri e cerca di soddisfarli, facendo in modo però di non intaccare il meno possibile i diritti e i bisogni altrui.
Lo stile assertivo si caratterizza per:
un’attenzione sia a sé stessi, sia agli altri;
tendenza a cooperare;
tendenza ad essere propositivi;
attenzione agli aspetti razionali e a quelli emotivi.
E si manifesta attraverso alcuni comportamenti:
ascoltare attivamente, chiedere;
approfondire la conoscenza dei bisogni altrui, ma anche dei propri;
assumersi le proprie responsabilità, prendere decisioni;
esprimersi liberamente (opinioni, emozioni, fare apprezzamenti, critiche, etc);
saper rifiutare;
proporre;
ammettere i propri sbagli, accettare critiche.
6.2 LO STILE AGGRESSIVO
Il presupposto su cui si basa il comportamento aggressivo è invece quello della ridotta importanza dell’altro. Dunque, esiste un egocentrismo che induce inevitabilmente a un’eccessiva autostima.
La comunicazione aggressiva si basa su un “gioco a somma zero” (solo uno dei due può vincere: se io vinco tu perdi).
Vi è quindi un marcata tendenza a prevalere sull’altro, a condizionarne i comportamenti.
Generalmente l’aggressivo si manifesta tale, al fine di acquisire un potere sociale, ricevere conferme e influenzare gli altri, apparire forte, incutere soggezione. Talvolta, la volontà di apparire forte nasconde una fondamentale insicurezza o timidezza.
Lo stile aggressivo si caratterizza per:
un’attenzione prevalentemente a sé stessi;
tendenza a sopravvalere sull’altro;
tendenza a condizionare gli altri.
E si manifesta attraverso alcuni comportamenti:
comandare, imporre la leadership in un gruppo;
non mettere in discussione il proprio modo di vedere;
sminuire i meriti altrui;
criticare, emettere sentenze;
manipolare.
6.3 LO STILE PASSIVO
Lo stile passivo parte dal seguente presupposto implicito: “io valgo meno degli altri”, oppure “voglio apparire come tale”.
È difficile capire quali possano essere le ragioni che portano a un tale comportamento.
Chi adotta lo stile passivo può farlo perché ha la necessità di essere accettato, oppure cerca di evitare l’aggressività degli altri, oppure per una mancanza di conoscenza dei propri diritti, che lo porta a subire tacitamente il comportamento altrui.
Lo stile passivo induce a conformarsi agli altri, evitare di prendere posizioni o decisioni. Nel rapporto comunicativo il protagonista è l’altro.
Lo stile passivo si caratterizza per:
un’attenzione prevalente agli altri;
un marcato conformismo;
la tendenza a imitare il comportamento altrui.
E si manifesta attraverso alcuni comportamenti:
lasciare che gli altri decidano;
evitare;
non assumersi rischi;
stare in disparte;
dare ragione al più forte;
cercare l’approvazione altrui;
non reagire alle critiche.
Come abbiamo detto, ognuno è in grado di far proprio lo stile assertivo, potendo così migliorare il proprio stile comunicativo.
Il presupposto di base è la stima di sé.
6.4 LE CRITICHE
Una delle situazioni, in cui la capacità di comportarsi in modo assertivo viene messa a dura prova, è quando veniamo criticati.
Siamo vulnerabili di fronte alle critiche perché esse rappresentano una minaccia di rifiuto.
Vi sono, semplificando, due tipi di critiche: costruttive e manipolative.
Le critiche costruttive sono dirette a modificare non la personalità di un individuo, ma il suo comportamento in una specifica situazione e con precisi riferimenti. Per esempio: “Non mi piace come hai reagito”, “La tua risposta mi è sembrata eccessiva”.
Le critiche manipolative colpiscono l’individuo nella sua personalità. Sono generiche e totalizzanti, per la presenza di termini come “mai”, “sempre”, “tutto”, “ogni volta”, “niente”; in frasi come: “Sei sempre il solito!” “Non cambierai mai”!
Il loro effetto è quello di indurre ansia, sensi di colpa e incapacità.
Come si risponde alle critiche? Vi sono varie possibilità.
Una di queste è l’asserzione negativa: rappresenta una modalità per rispondere alle critiche costruttive.
Per esempio, di fronte a una critica che ci viene rivolta per aver commesso un errore, si può rispondere: “Sì, hai ragione: ho sbagliato in questo…Mi dispiace.”
Capita a tutti di sbagliare: riconoscerlo apertamente, chiedendo scusa e accettando le critiche, è segno di personalità assertiva.
Anche il chiedere scusa va però considerata un’abilità, legata al criterio del giusto mezzo.
Nel farlo, quindi, non eccederemo in un comportamento di sottomissione.
Altrimenti, daremo un’impressione di debolezza ed eccessivo timore di essere criticati: chi fa marcatamente autocritica da solo, sembra sottrarsi alle critiche altrui per paura del giudizio.
Esistono, inoltre, delle tecniche di “protezione” dalle critiche che, tuttavia, vanno utilizzate con cautela e in modo flessibile, a seconda
dell’interlocutore e della situazione che stiamo vivendo.
Possono essere considerate come un’ultima risorsa quando il nostro tentativo di passare da una comunicazione frustrante a una più chiara e onesta, fallisce.
6.5 TECNICHE PER PROTEGGERSI DALLE CRITICHE MANIPOLATIVE E AGGRESSIVE
Ignorare selettivamente:
consiste nel rispondere solo a quelle parti del discorso che ci sentiamo di accettare, ignorando quelle che ci sembrano sgradevoli o manipolative.
Separare gli spunti:
è indicata nel caso in cui le critiche dell’altro confondono settori diversi per raggiungere meglio lo scopo, come può accadere nel caso in cui, per esempio, una persona che chiede un prestito, nel vederselo rifiutare, accusa l’altro di tradire la sua amicizia, facendo appello all’amicizia che lega le due persone, passando così dall’argomento “prestito” all’argomento “amicizia”.
Negoziare:
è una tecnica abbastanza complessa i cui punti essenziali consistono nel mostrare con chiarezza all’altro che siamo in grado di capire i suoi sentimenti e che siamo disponibili a collaborare per raggiungere una soluzione al problema.
Infine, si vuole sottolineare che, al di là delle tecniche che possono avere una certa utilità, è soprattutto rilevante conoscere noi stessi, imparare a riconoscere la nostra modalità di rispondere alle critiche, “ascoltarci”, sentire le emozioni che proviamo quando facciamo una critica, come ci sentiamo quando ci siamo criticati e che difficoltà abbiamo nel reagire alle critiche che ci vengono rivolte. Una maggiore consapevolezza delle emozioni che sperimentiamo aiuta anche a trovare delle strategie per rispondere in modo più efficace quando ci sentiamo “attaccati”.
6.5.1 REGOLE PER FORMULARE UNA CRITICA IN MODO ASSERTIVO
Riflettere bene inizialmente sull’obiettivo che volete raggiungere, l’obiettivo dell’altra persona, le vostre e le sue emozioni, nonché i vostri atteggiamenti, per valutare quanto distanti o diverse siano le vostre posizioni;
Pensate a dove e quando è meglio affrontare il discorso;
Spiegate le ragioni per cui aver pensato che affrontare l’argomento sia utile e positivo;
Criticate “a quattro occhi” e in privato;
Siate specifici e chiari su quali siano i comportamenti che volete criticare, evitando di usare affermazioni generiche;
Rivolgere le critiche al futuro;
Criticare sempre un comportamento e non la persona o il suo carattere;
Lasciate che il vostro interlocutore abbia tutto il tempo per esporre la sua versione dei fatti;
Proponete una soluzione e lasciate che anche il vostro interlocutore proponga la sua;
Esprimete chiaramente, direttamente e onestamente, le conseguenze che il mancato cambiamento comporterà per voi e per lui;
Concludete con una nota di ottimismo e con un commento che rafforzi l’intenzione costruttiva della critica.
7. L’AUTOSTIMA
L’autostima è la consapevolezza della nostra importanza come persone e,quindi, che si è in grado di assumersi responsabilità. Il rispetto per i nostri diritti e le nostre emozioni ci permette di avere una relazione costruttiva con gli altri.
Avere una buona autostima ci consente di affrontare le situazioni problematiche in modo assertivo.
Ma ancora di più può fare l’auto-efficacia, cioè “la fiducia della persona nella propria capacità (o incapacità) di mobilitare la motivazione, le risorse cognitive e i comportamenti necessari per esercitare un controllo sugli eventi della propria vita” (Bandura, 1998).
Non è importante il risultato che si raggiunge, ma la percezione della nostra capacità di non “tirarsi indietro”, per quanto si possa fare.
Questa fiducia, che riponiamo in noi stessi, ci porta a migliorare in modo significativo il nostro benessere psicologico e la nostra realizzazione personale: si diventa capaci di valutare meglio le situazioni che sono alla nostra altezza e quelle che vanno invece scartate.
Il livello di autostima e di auto-efficacia, che si hanno di sé stessi,condiziona fortemente i comportamenti: pensare di valere poco o di non esser capaci di fare qualcosa, perché si vale poco, sono spesso all’origine di comportamenti passivi o aggressivi, se si ha la tendenza a difendersi per non essere prevaricati.
L’auto-efficacia non dipende solo da noi stessi, nel senso che può essere influenzata dall’ambiente sociale in cui si vive e dall’ambito lavorativo in cui si passa la maggior parte del tempo.
La propria autoefficacia ha quattro fonti fondamentali:
Le esperienze personali dirette, passate, presenti e future. Il raggiungimento di un obiettivo è importante per il proprio senso di autoefficacia, ma da solo non basta: è importante saperlo valutare;
È inoltre fondamentale il MODO in cui si è raggiunto tale obiettivo. Occorre analizzare il tipo di comportamento adottato, quali abilità sono state impiegate, quale l’impegno, etc.;
Le esperienze vicarie che trasmettono il senso di autoefficacia attraverso il confronto con le prestazioni ottenute da altri;
Il confronto con il comportamento e le competenze e i processi adottati dagli altri permette di acquisire mezzi efficaci per accrescere la propria convinzione di autoefficacia;
Le influenze sociali affini che infondono la convinzione sulle proprie capacità;
Le condizioni fisiche, lo stato affettivo e di stress in cui ci si può trovare influenzano il senso di autoefficacia: in generale, migliorare le condizioni fisiche, ridurre i livelli di stress e la tendenza a provare emozioni negative, sono fondamentali per aumentare il senso della propria autoefficacia.
Il comportamento assertivo comporta il riconoscimento dei propri diritti e di quelli altrui, essere disponibili a sostenerli e difenderli con un
comportamento adeguato.
Conoscere tali diritti permette intanto di avere un parametro per valutare il tipo di relazione che si sta instaurando e, quindi, capire se essa sta assumendo le caratteristiche di relazione passiva o aggressiva, anziché assertiva.
Ovviamente, se si ha scarsa autostima, non si può pensare di chiedere rispetto perché la convinzione di base è di non meritarselo.
Ma di quali diritti si sta parlando? Non c’è un elenco esaustivo: essi variano secondo la cultura di appartenenza e del contesto della relazione.
Tuttavia, si può stendere un elenco di diritti fondamentali comuni a tutte le situazioni relazionali:
il diritto di decidere e valutare il proprio comportamento, le proprie emozioni e assumersene la responsabilità;
il diritto di non giustificare il proprio comportamento;
il diritto di valutare e decidere se si ha la responsabilità di trovare la soluzione ai problemi degli altri;
il diritto di cambiare idea;
il diritto di commettere degli errori ed esserne responsabile;
il diritto di ammettere di non sapere e chiedere spiegazioni;
il diritto di sentirsi libero dall’approvazione degli altri prima di instaurare con loro una relazione;
il diritto di non essere perfetti.
Non esiste un comportamento definibile in assoluto come assertivo.
Ma essere assertivi significa soprattutto avere un pensiero, una mentalità assertiva che condiziona i comportamenti successivi. Significa realizzare il proprio progetto, soddisfacendo le proprie necessità e desideri in un dato momento e in un determinato contesto.
Riuscire a parlare in modo assertivo, poi, significa comunicare in modo diretto, onesto e aperto, riuscendo ad instaurare una relazione con l’altro adeguata alla situazione nella quale ci si trova.
Insomma, diventare assertivi significa creare comunicazione e relazioni rispettose dei nostri bisogni e delle nostre emozioni, nel pieno rispetto delle esigenze altrui.
8. ESERCITAZIONI
8.1 MINI DISCORSI PERSUASIVI
L’esercitazione serve ad acquisire maggior consapevolezza di quali aspetti rendono maggiormente “persuasiva” una comunicazione.
Particolare enfasi verrà data agli elementi della comunicazione non verbale che sostengono la comunicazione persuasiva.
La capacità di essere convincenti dipende in gran parte da piccoli “accorgimenti” che possono essere così brevemente riassunti:
l’utilizzo delle pause all’interno del discorso;
“stressare” le parole a cui si desidera dare particolare enfasi;
servirsi delle pause per guardare negli occhi gli interlocutori;
variare il tono della voce, evitare la monotonia;
mantenere un “buon” ritmo;
“spezzare” tra di loro le parole;
sguardo circolare, se si è in presenza di un uditorio composto da più persone;
scandire anche i finali di parola.
8.2 SUI MECCANISMI PERCETTIVI
Mia moglie e mia suocera:
L’esercitazione è utile per mettere in evidenza quanto il “dire solamente” non sia spesso sufficiente perché colui che ascolta arrivi a una comprensione corretta del messaggio che gli vogliamo inviare.
Perché si realizzi una reale comprensione, “dire” non basta; bisogna spiegare e la spiegazione necessita di cura e particolare attenzione da parte di chi parla.
L’esercitazione permette, inoltre, di mettere in luce che, anche di fronte agli stessi dati di realtà, le persone tendono a non vedere le stesse cose allo stesso modo, bensì ad “interpretarle” diversamente.
Le persone, quindi, senza accorgersene, sono portate a essere interpretative, invece che descrittive.
L’inevitabile diversità tra le persone è legittima e richiede, per poterla comprendere, una mente aperta, una mentalità pluralista.
Questo ci può aiutare a capire, anche in ambito lavorativo, che uno stesso problema, che esponiamo ai nostri colleghi, può essere colto in maniera diversa da chi ci ascolta, in quanto la percezione dei disagi, della sofferenza viene vissuta in maniera differente, il che rispecchia le diverse reazioni emotive (drammatizzazione, svalutazione) che conseguono a una stessa comunicazione.
Il passa parola:
L’obiettivo dell’esercitazione consiste nell’illustrare come le persone, nel trasmettersi verbalmente le informazioni, modifichino il messaggio originario e nell’individuare i fenomeni che “disturbano” una corretta comunicazione.
Selezione (Quantitativa):
Di fronte a una certa quantità di informazioni, tendiamo a selezionare alcuni aspetti che appaiono salienti, a seconda del nostro retroterra culturale, del contesto in cui ci troviamo, del tipo di comunicazione che stiamo ascoltando, etc.
Filtro:
Si riferisce alla tendenza a “filtrare” alcune informazioni in base a meccanismi che possono essere la vicinanza/lontananza, stati d’animo,valori- carattere, motivazione-interesse-bisogno, etc.
Se nel testo letto, vi è il nome di una località geografica, per esempio, il meccanismo di filtro vicinanza/lontananza può essere reso evidente dalla diversa provenienza dei partecipanti. Se provengono dalla regione in cui si trova quella città, molto facilmente riusciranno a ricordarsi correttamente il nome della località citata. Se, invece, arrivano da altre regioni lontane molto facilmente storpieranno il nome o non riusciranno a ricordarlo.
Fissazione:
Quando si ascolta un messaggio, molto spesso si ha la tendenza a “fissarci” su un aspetto che riveste una rilevanza differente per le diverse persone, per esempio, per il diverso significato che possiede nella storia personale di ciascuno.
Oppure, ci si può “fissare” su un aspetto perché è stato presentato con un tono di voce particolare o accompagnato da un gesto e quindi caricato di enfasi.
Integrazione/Interpretazione:
Tale meccanismo è reso evidente dal desiderio di rendere coerenti le variabili che sembrano essere tra loro contrastanti o prive di significato, aggiungendo informazioni di contorno.
Effetto evocativo:
Ogni parola evoca reazioni differenti in chi parla e in chi ascolta.
Chi invia un messaggio dovrebbe quindi tenere conto della diversa “risonanza” che le parole hanno negli individui.
8.2.1 ACCORGIMENTI PRATICI
Saper spiegare implica una particolare cura e pazienza e si può avvalere di alcuni accorgimenti pratici:
Non dare niente per scontato;
Collocare il messaggio all’interno di un contesto, segnalando con chiarezza cosa viene prima e che cosa verrà dopo;
Importanza del “dettaglio” nelle spiegazioni;
La velocità di parola (chi parla conosce il contenuto) è maggiore della capacità di ascolto/decodifica del ricevente;
Se l’interlocutore non ha capito, non è utile spiegare “ripetendo”;
È preferibile rispiegare partendo da un’altra ottica;
Evitare atteggiamenti “valutativi”;
L’efficacia della comunicazione passa anche attraverso la pazienza;
Quando l’obiettivo della comunicazione è quello di dare spiegazioni, la responsabilità maggiore è quella dell’emittente;
Importanza del “ricercare” tutte le strade necessarie al raggiungimento del risultato.